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Di una sconosciuta

È martedì e devo andare dal dentista.

Per andare dal dentista devo fare prima un tratto di strada a piedi, poi prendere la metro, fare qualche fermata, scendere a Lima, e fare un altro tratto di strada a piedi.

A me è sempre piaciuto andare dal dentista, da piccola, dopo la visita, mio padre mi comprava sempre due focaccine con le olive, per togliermi dalla bocca il cattivo sapore dei guanti del dottore, che si ha sempre dopo esser andati dal dentista, e poi ci fermavamo in edicola e mi comprava un giornalino.

Ora, da quando dal dentista vado da sola, di quel momento mi piace la tranquillità, soprattutto del tragitto.

Essendo una visita medica, non mi è mai sembrato di sprecare il mio tempo o di pensare, mentre andavo verso lo studio, che avrei dovuto fare qualcos’altro in quel momento.

Andare dal dentista, per quell’oretta, era il mio unico dovere e mi è sempre sembrata una cosa piacevole, anche se in realtà è solo una visita medica.

Oggi, però, è un po’ diverso.

In metro davanti a me è seduta una donna.

Di solito, appena salita, tiro fuori il libro che sto leggendo in quel periodo e alzo lo sguardo solo per non perdere la mia fermata.

Oggi no, non riesco.

La donna che è seduta davanti a me mi chiama, anche se silenziosamente.

È una figura magnetica, scollata dalla realtà, anche se perfettamente a suo agio nel ruolo di persona normale.

Lei ha i capelli grigi, grigio topo, sfibrati, ma lei non è vecchia. Il suo viso dimostra ventidue, al massimo venticinque anni, ha gli occhi giovani e tanto profondi da essere un po’ inquietanti.

La pelle della donna che ho di fronte è bianchissima, quasi trasparente, anche da dove sono seduta riesco a intravedere una vena verdastra che le segna delicatamente la guancia sinistra.

Mi sento quasi sciocca a notare la donna che è seduta di fronte a me, mi viene spontaneo guardarmi intorno per cercare, negli occhi degli altri passeggeri, il mio stesso stupore nei confronti di questa donna.

Eppure non è cosi, gli altri passeggeri non si sono accorti né di me, né di lei.

Io torno a guardare lei, mi chiama.

Si guarda i piedi, sembra imbambolata.

Le sue scarpe sono dei mocassini neri un po’ rovinati e sembra inspiegabilmente che lei li trovi molto affascinanti.

Ruota un po’ il piede destro ed esamina parte della suola poi, soddisfatta, solleva un po’ la punta del piede, appoggia per terra il destro e inizia ad esaminare il sinistro, stavolta senza sollevarlo.

Vedendo la suola un po’ consumata si ricorda di una sera.

Era tornata da un concerto, la sua amica l’aveva appena lasciata sotto casa e stava ripartendo in macchina.

Lei quella sera, maldestramente, era inciampata nel gradino del marciapiede e si era tagliata il mento.

La sua amica era già ripartita, quindi lei, sporca di sangue, era salita a casa, si era lavata il viso, si era esaminata la ferita e si era medicata con cura.

Quella sera, dopo il concerto, dopo la caduta, aveva preso delle bende e dei cerotti e si era fatta una medicazione, sperando che per la ferita non fossero necessari dei punti.

Quella sera, che ormai era quasi mattina, era andata a letto.

Riguardando la suola consumata, traditrice, noto nel suo sguardo che ancora prova rancore nei confronti di quella suola. Si sente ancora tradita.

Io mi rendo conto di fissarla da un po’, è maleducato, fastidioso, non si fa.

Cerco di ricompormi, mi immagino con un’espressione stupidissima sul viso, e poi spero che non si sia accorta che la stavo guardando, perché voglio farlo ancora, senza che lei lo sappia.

Torno a guardarla, mi chiama.

Vedo che ha le unghie tutte rotte, e che se le sta strappando, nervosamente.

è strano, il suo corpo è calmissimo, tutti i piccoli movimenti che fa, col viso, con gli occhi, con i piedi, sono pieni di grazia, lenti.

Sembra che il suo corpo sia immerso in un liquido viscoso e denso che impedisce che i suoi movimenti siano bruschi, tutto il suo corpo è immerso, ma le sue mani no.

Le sue mani sono nervose e cattive, si continuano a fare del male, tra di loro, litigano.

La immagino immersa nel liquido fino al collo, le copre gli occhi, le riempie le narici, la bocca, il liquido la sta soffocando, ma le sue mani non sono immerse e cercano disperatamente di uscire da quel fango dov’è il suo corpo.

Le sue mani cercano di farsi notare, mi sta forse chiedendo aiuto?

No, non mi sta chiedendo aiuto.

Il liquido viscoso non la sta soffocando, ora mi è chiaro.

Lei nuota in quel liquido, danza, e si diverte moltissimo, è tranquilla, nessuno la può disturbare, sta ballando con se stessa. Penso che debba essere molto fortunata, deve essere molto felice.

Evidentemente il suo cellulare ha iniziato a vibrare perché lei, con movimenti lenti, lo tira fuori dalla tasca della giacca.

Guarda il cellulare, ma non risponde, per un attimo alza gli occhi verso di me, e rimette il telefono nella tasca. Lei non può rispondere, sta già parlando con me.

Io e lei stiamo avendo la conversazione più interessante della mia vita.

Siamo zitte ma mi sta raccontando un sacco di cose.

Stamattina lei si è svegliata, ha mangiato una mela, bevuto un caffè. Poi si è vestita, si è infilata i mocassini traditori, si è messa la giacca, ed è uscita di casa.

Stamattina è andata a fare la spesa dal fruttivendolo, è tornata a casa, ha chiamato una sua amica, ha pranzato e poi ha deciso di venire da me a raccontarmelo.

Ora, dopo aver controllato a che fermata fossimo, ha iniziato a giocherellare con una sottile collanina che ha al collo.

È una collana d’argento e non se la toglie mai da quando sua zia gliel’ha regalata.

Poi sua zia si è trasferita, e poi è morta.

Ora stupidamente, non vive bene il fatto di averla sempre al collo, certo è contenta di aver sempre con sé sua zia, ma sa che se la perdesse le sembrerebbe di aver perso un tesoro preziosissimo.

Sa benissimo che è un pensiero stupido, è solo un oggetto e, se le va di tenerla al collo, fa bene, altrimenti la può togliere, questo le è chiaro.

Eppure, sebbene sappia benissimo che sono dei pensieri sciocchi e infantili, non riesce ad ignorarli.

Questo me lo ha detto lei, con le sue mani nervose che accarezzano la collanina per assicurarsi che sua zia sia ancora con lei.

Si è chiesta molte volte perché sua zia se ne sia andata, e si è chiesta tante volte perché quella sera sia caduta sul marciapiede.

Bastava che la malattia non prendesse sua zia, ma un’altra persona, ce ne sono tante in fondo, pensa dal posto dov’è seduta.

Invece era capitato proprio a sua zia, dopo il trasferimento.

Lei era lontana, aveva appena iniziato l’università ed era riuscita ad andare a trovarla poche volte.

La prima volta che era andata dalla zia dopo aver saputo della malattia se la ricorda benissimo.

Era gennaio e faceva tanto freddo, quel freddo che rende tutto più triste, più difficile, quel freddo che, quando c’è, rende quasi impossibile camminare, lei aveva il treno alle 8 e trenta di mattina, ed era in ritardo.

Come ogni giorno si era vestita e preparata, quasi in modo meccanico, senza rendersi conto di dove stava andando e perché.

Però, una volta uscita di casa, con la valigia per il weekend in mano, come se lo stesse scoprendo in quel momento, si ricordò cosa stava facendo.

Si ricordò che due giorni prima sua madre l’aveva chiamata per dirle che la zia, quella con cui andava in vacanza d’estate da quando era nata, quella che le cuciva i vestiti, quella che quando aveva quattordici anni le faceva bere la birra di nascosto, quella che amava tanto, era malata.

La malattia probabilmente non se ne sarebbe andata, probabilmente la zia invincibile che era sempre stata il suo punto di riferimento avrebbe perso.

Quel giorno, mentre stava andando in stazione per prendere il treno, le si riempirono gli occhi di lacrime e lei non le fermò, pianse disperatamente, singhiozzando, le lacrime scendevano sulle sue guance e lei non faceva niente per evitarlo.

Pregò di smettere di piangere prima di arrivare dalla zia, e cosi fu, non si sarebbe mai perdonata di non saper esser forte con la persona che lo era stata di più per lei.

Ora è seduta davanti a me e si chiede come sia possibile continuare a vivere dopo aver perso una persona.

Come si fa ad alzarsi, a lavarsi i denti la mattina? Come si ricomincia ad uscire? Dopo aver perso la persona più importante, come fai a mangiare ancora volentieri? Anche sua zia si meritava di far parte di questo mondo, ancora per un po’ almeno.

La ragazza con i capelli grigi e la vena sulla guancia è davanti a me, sua zia non più e lei lo trova molto ingiusto.

Mi sento inopportuna a guardarla cosi, ma non riesco a farne a meno.

Vedo che sorride, si sarà ricordata che farsi domande del genere è inutile.

Si sarà ricordata che tutti, anche dopo aver perso la persona più importante, in qualche modo ricominciano, perché si sopravvive a tutto.

E poi, sorride perché si è ricordata che anche lei ce l’ha fatta, nonostante la preoccupazione di perdere la collanina e i ricordi che le fanno male, anche lei stamattina si è alzata, si è lavata i denti, è andata a fare la spesa, ha pranzato e poi ha deciso di venirmelo a raccontare, con le sue mani cattive e i suoi mocassini traditori.

Si ricorda che anche la sera in cui è caduta sul marciapiede tagliandosi il mento pensava di non farcela, mentre si medicava in bagno da sola si guardava allo specchio, i suoi occhi erano tranquilli ma intanto lei temeva di stare male durante la notte, drammaticamente aveva anche pensato che sarebbe potuta morire da sola senza che nessuno se ne accorgesse.

Ovviamente non era morta, se lo ripeteva ognuno di quei giorni in cui il ricordo di quello che era successo alla zia la tormentava, ed erano molti, quei giorni.

Eppure si sopravvive a tutto, si diceva, e infatti sopravviveva.

Il vagone è sempre più pieno, tra me e lei ci sono altre persone, in piedi che, con gli occhi stanchi, aspettano la loro fermata.

Io mi piego, cercando di non farmi notare troppo, per continuare a guardarla, anche se tra di noi ci sono altri passeggeri.

Lei si accarezza i capelli, si gratta la guancia, si guarda le unghie che ha tormentato fino a poco fa, e torna ai suoi piedi, incuriosita.

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